giovedì 29 novembre 2007

Pussycats Power: Il fungo della fertilità




Dopo due anni di assenza, i Pussycats Power escono con il loro terzo lavoro.
Si sono appena spenti (o forse no?) gli echi di Emirates for single shot, un disco epocale, un lavoro immenso e germinale che ha aperto le porte della percezione a una generazione di epigoni: chiedere ai Soul Mecha o al Pete Orango di Niet, please.
Due anni di assenza, dicevamo. Ma due anni spesi bene. Le chitarre di Salmadian Carter si sono risciacquate nell'Acheronte di un disco solista (Stars & Discipline) praticamente perfetto. Il basso di Emilio Munari ha cavalcato con i Mood for Jerusalem, testimonianza ne è il bel live tratto dalla tournée in Polonia e Ukraina. Il batterista-cantante dei Pussycat Power, Jerry-Lee Franza, ha suonato sotto le bombe e dentro le cantine di oscuri porti francesi, in cambio di un anonimato e di un set di pentole di rame di fine Ottocento. Ma mettiamo su il vinile e lasciamo partire questo Woman in mushroom sauce, che già dalla copertina promette cocktail lisergici e frammenti di rock da consegnare all'eternità. Geniale la foto: una donna nuda che si imbarazza di fronte allo spettacolo disturbante di una divisa insanguinata, ricoperta di funghi. Sullo sfondo, una foresta primeva.
Il primo pezzo è quello che dà il titolo all'album. Una marcetta decadente, cadenzata da una chitarra accordata in Re e da un basso profondo come un colpo di cannone in una chiesa. La batteria non dà tregua e salmodia il ritmo di un'autentica esecuzione. I brividi sulla schiena ci fanno capire che non siamo in paradiso, e che non ci finiremo mai.
Attacca la ballata semi-acustica On the tongue again e la neve si scioglie nei cuori e nei bicchieri. "Lei non c'è, perché non c'è mai stata. Al suo posto, tupperware pieni d'insalata" è la frase che voremmo aver scritto noi, poveri cronisti dell'altrui talento.
Poi tocca alla polka ruvida di Cent Sentinel, storia di un soldato (il padrone della divisa fungo-dotata?) che sceglie di uccidere un inoffensivo maiale per non essere costretto a sparare al suo nemico. Qui tornano gli arpeggi dissonanti del loro primo disco, Overminus in minor, che la critica salutò con aggettivi freddini e definizioni costrittive. Si parlò di buoni segnali e di seminalità dispersiva. Tutto qui, ci credete?
Il quarto pezzo è Storia della Musica, così, in italiano. E mai titolo fu più azzeccato. Del resto, Franza e Munari si sono incontrati al Dams e vanno ancora a pesca nelle valli di Comacchio. Storia della Musica, dicevamo. Chopin che incontra il Maleriancic di Post Prandium, con la voce di Franza che diventa un ponte tra l'uomo e il suo dopplegang taumaturgo.
Il quinto e ultimo brano - un po' breve la fatica dei Nostri, ma per una durata complessiva più che soddisfacente - è Morphine for no pain, ghirigoro sonoro baciato dalla grazia, con un a solo di chitarra che prende in prestito dinamiche da violoncello e l'agilità melliflua di un grande flauto traverso.
Concludendo. È un disco aperto, questo Woman in mushroom sauce. Come la vita. Come l'orizzonte. Ma si tratta di una vita malata, con le radici ben dentro il marcio di una palude decomposta. E l'orizzonte è un lusso che non ci possiamo permettere, almeno finché i nostri occhi saranno rivolti verso l'interno. Almeno finchè non smetteremo di sentire e non cominceremo, invece, ad ascoltare.

Pier Paolo Marcandreasi

lunedì 26 novembre 2007

La faida



Il fato l’ho inventato io. Ho preso in prestito da un dio ipermetrope un pugno di mosche cieche, una mappa del tesoro e un paio di forbici d’oro. Ed è successo che ero in un locale, bevuto come uno che ha bevuto cattivo. È finita a spinte, come da piccoli, solo che adesso spingiamo più forte. Quello è andato giù pesante e ha distrutto una vetrata piena di bicchieri. Oggi torno a pagare i debiti, perché sono un pirata e un signore, professionista nel dolore. Il barman fa la faccia simpatica e mi dice che non è successo niente, che siamo tutti uomini, soprattutto quando si tratta di donne. Io non ricordo e non mi sforzo, prendo la birra che mi offre e gli lascio centoventi euro sul bancone. Cara, la birra, da queste parti.
Arrivo a casa col sorriso dei giusti, che è uguale a quello di chi l’ha fatta franca,. A pensarci bene, una Franca me la sono fatta davvero, quando studiavo al magistero. I premiti addominali cominciano piano, rumori da idraulico e denti da piranha che si fanno strada nel ventre. Nel mentre, capisco. Guttalax nella birra, una boccetta intera. Non chiamo aiuto, ce la devo fare da solo. Acqua e Polase, limone ed Enterogermina, ma la notte è lunga e mi passano per la testa pensieri di morte. Una morte di merda.
Visualizzo una salita e comincio a pedalare, tanto, seduto sono seduto e a sudore non scherzo un cazzo. La faccia del barman, il suo sorriso osceno, diventano un traguardo da raggiungere a ogni costo, anche perché i controlli antidoping non porteranno a nessuna squalifica. Come nella vita vera. Al mattino, sono ancora vivo, incartapecorito come uno dei Pooh e con il fumo agli occhi che neanche ai concerti ne ho visto tanto. Torno al pub, camminando lasco, superstite del Vietnam dei miei intestini, Rambo che non voleva casini, ma tant’è. Nei miei occhi c’è scritto: uno a uno, pareggio onorevole e giocavo pure fuori casa. Stavolta la birra la offro io e stringo una mano che mi promette la totale assenza di rancore. Ridiamo di cazzate, di Franca e di Maria. Poi gli offro una birra, e così sia.
Torno a casa e dormo come un bimbo, dopo un riso in bianco che non fa nemmeno troppo schifo. Al mattino investo 5 euro nella rassegna stampa. Sfoglio piano, leggo tutto e la notizia non tarda a mettersi in mostra, incorniciata tra uno scippo e l’iniziativa del sindaco, che vuole meno barboni e più sagre: Uomo nudo rincorre messo comunale e gli chiede di sposarlo. Ci ho rimesso due acidi, sciolti nella birra del mio rivale, ma ci ho guadagnato una bella faida. Due a uno per me, l’arbitro fischia la fine. Il fato l’ho inventato io, pochi cazzi.

giovedì 22 novembre 2007

Non era la mia guerra





C’è lei che dice sempre che non beve vino, ma se gliene lascio un po’…
Come per il caffè, che giusto un dito dal tuo bicchiere, non zuccherato.
Aspetta i miei slanci, ma non li incoraggia, come una maestra un po’ delusa dal suo alunno migliore. L’ho scelta tra due candidate al concorso del mio scalpo di scapolo, in un anno in cui le vacche erano magre e pure un po’ pazze.
E baci a mille sotto ai portoni, i cappotti sferzati dal vento sollevati da mani impazienti. Fuori tutte le sere, a far finta di andare fuori. Io leggevo Spillane, lei Richard Bach. Provammo a fare a cambio, ma non funzionò granché: troppe poche pupe spietate e troppi gabbiani saccenti. Poi andiamo a convivere, perché è un'esperienza da fare. Lei attacca foto di gente estranea su pareti che credevo mie e riempie il frigo di cibi da femmine. Niente capocollo, molti yogurt. C'è crisi di mortadella, ma un trionfo di cavoletti di Bruxelles. Che poi dice che in Belgio si soffre di una solitudine inconsolabile: ci credo.
All'improvviso, la mia musica non va bene. Che ci troverò in quelle chitarre distorte? Il canto del lama, invece, ti rimette al tuo posto nel mondo. Io non mi fido, perché i lama sputano, è risaputo. E il mio posto nel mondo mi piaceva di più prima. Era una nicchia invisibile, coperta da cellophane spiegazzato, quello che ci foderavi male i quaderni delle elementari. Era un posto pieno di nebbia, che invece a guardarlo bene era fiato rappreso, cristallizzato in volo da una giornata di quelle fredde in cui Roma è un parcheggio dell'Ikea pieno di monumenti e scippatori.
In mezzo, di lato, dovunque, c'è la vita di tutti i giorni. È una cosa enorme, pesante, faticosa, difficile perfino da dire, come uno di quei segreti che uno sceneggiatore americano ci campa per tre film. È roba di ossa lise, di piegamenti per raccogliere calzini sporchi, di cassetti pieni di ricordi talmente antichi da sembrar reperti. La fila dal dottore, chi è l'ultimo, speranza riposta in un superenalotto rancoroso ma sognante, pasta cattiva alla mensa aziendale, telefona a tua madre, telefono a mio padre, passa a prendere la roba in tintoria, rinnova il documento.
Lasciami stare.
Ho mangiato verdura e bevuto latte dopo Chernobyl, ho diviso traiettorie urbane con Jack Lametta, ho partecipato ai fumerali di Berlinguer e a quelli di un mio amico giovane.
Lasciami stare, o scateno una guerra che nemmeno te la sogni…

domenica 18 novembre 2007

My way



- È tutto a posto, è tutto normale.
Disse Paul Tibbets, che aveva chiamato il suo aereo Enola Gay.
Era il nome di sua madre, non poteva esserci nascosto dentro qualcosa di male. Bombe atomiche e confetti sulla Seconda Guerra Mondiale.
Io sono nato tanti anni dopo, il mio aereo l'ho venduto per un pallone, ho combattuto guerra di trincea in cameretta, ho conosciuto l'amore di striscio, non ho fatto prigionieri, ho scritto racconti stralunati e li ho pure pubblicati.
- Devo fare pipì.
Disse Lucky Luciano e si alzò dal tavolo del ristorante. Al boss Joe Masseria non venne il sospetto e si beccò pure lui qualche confetto.
Io ho imbrogliato per non fare il militare, ho mentito per secondi fini, ho preso parte ad agguati alimentari, saccheggiatore notturno di frigoriferi esausti.
- Sono più bravo come pittore.
Disse Django Reinardt dopo un concerto trionfale, cuore da zingaro e dita mancanti da mafioso che ha tradito, cravatte sbagliate e cappelli flosci.
Io ho suonato per anni la stessa canzone, ai falò sulla spiaggia che hanno dato tanto alla mia generazione: fidanzate e sabbia nelle scarpe in egual misura, due tipi diversi di fastidio e di incazzatura.
Poi, se vai a fondo, scopri che alcuni pezzi di Django sono finiti dentro al videogioco chiamato Mafia e che il musicista, non contento, ha scritto una canzone che si chiama Nagasaky, che è un trionfo del divertimento.
E allora io che ci sto a fare? Copioincollo, riassumo, prendo appunti, ma non sono decisivo. Entro nei minuti di recupero, tengo palla vicino alla bandierina, mantengo il risultato in attesa del fischio finale. E mi becco non giudicabile sulla pagella del giornale.
- Non arriverò a venticinque anni.
Disse Sid Vicious, che però ha fatto in tempo a inventare il pogo.
Io prendo a spallate un foglio bianco e sputo sangue e denti dal palco sperando che serva, ma non saro mai una rockstar perché ho studiato e non riesco a imboccare la deriva punk.
- Cunt!
Disse John Mcenroe all'arbitro, che vuol dire idiota, ma anche sorca.
E vabbe', allora lo fanno apposta: Cunt, disse John Lydon all'Isola dei Famosi versione inglese. John Lydon, alias John Rotten, cantante dei Sex Pistols.
- Caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare.
Chi l'ha detto?

mercoledì 14 novembre 2007

Spoiler



Silvana era seduta al tavolino del bar.
Minigonna, maxitacco, rossetto alla ciliegia, maglietta aderente, prominenze ardite e le risalite. Ho visto beccacce nella stagione della caccia vivere più tranquille di lei.

- Signorina, lei permette?
- Dipende.
- Volevo offrirle una cosa da bere.
- Grazie. Una magnum di Krug dell'ottantanove.
- ?
- E' una cosa da bere…
- Io andrei.

- Bella bionda, sei sola?
- Sì. E c'è un motivo.
- Aspettavi me.
- No. Ho l'erpes sul cuore. Se mi innamoro, per curarmi poi ti tocca sposarmi.
- Ho un mezzo impegno con una mezza zia.

- Come t'intitoli?
- Ugo.
- Ma non è un nome da donna!
- No, ma ben si adatta a quello che ho sotto la patta.
- Mi chiude il fornaio, vado.

Poi arrivò il Paguro, così nomato per la timida compostezza dei modi e per la sua paura di vivere lontano dalla conchiglia. Silvana sospese l'esercizio della respirazione per quell'istante che fa tutta la differenza del mondo. Il Paguro alzò il volume delle cuffiette e i Guns gli spiegarono che a Paradise city l'erba è verde e le ragazze carine.
In mezzo, a rovinare tutto, un paesaggio non tanto urbano, soprattutto per via dei rumori: lavori in corso e gare di rutti, tacchettio di puttane in ritardo sul lavoro, mamme che chiamano figli coi nomi sbagliati, rigore, no, al massimo è punizione a due in area. Silvana sorrise a caso, che non fa mai male, e indicò le cuffiette come fossero un segreto di cui ambiva a far parte. Il Paguro le disincagliò dalle orecchie e le passò alla visione dalle fattezze di ragazza, sicuro che si sarebbe svegliato di lì a poco a causa di una polluzione notturna. Lei inforcò l'Ipod, che in quel momento riprodusse casualmente una canzone di Guccini. Il dialogo fu fluido, come succede nei sogni fatti a occhi aperti:

- Anche a te piace Guccini? (Io lo odio, ma tant'è…)
- Lo adoro! (E' una canzone scaricata da mi' sorella…)
- Piacere, mi chiamo Silvana. (Lo sto facendo davvero?)
- Io mi chiamo Paguro. Cioè, Carmine. (Meglio Paguro…)
- Prendi qualcosa? (Magari me…)
- Le cuffiette. (Me sa che ho detto 'na cazzata!)

E poi risero e parlarono di genitori divisi e di visi in generale. Convennero che la minigonna non sta bene a tutte le ragazze e che l'amicizia tra uomo e donna è possibile, soprattutto se lei è una cozza con l'apparecchio incrostato di spinaci. Si lasciarono a malincuore davanti casa di lei, promettendosi un incontro più elaborato e soddisfacente per il giorno dopo. Il Paguro, più tardi, rientrò nei suoi appartamenti, si tolse la conchiglia e baciò sua sorella sulla fronte. Era l'unico al mondo a conoscere il perché delle proprie azioni, come un agente segreto o come qualcuno innamorato da poco. Io sono una persona informata sui fatti, ma non mi chiameranno a testimoniare, perché sanno che posso uccidere il Paguro e Silvana in un secondo o mandarli una settimana in vacanza a spese mie. Volete un esempio della mia forza? Eccovi accontentati:

Silvana era seduta al tavolino del bar.
Minigonna, maxitacco, rossetto alla ciliegia, maglietta aderente, prominenze ardite e le risalite…

martedì 13 novembre 2007

Ultima replica



L'attrice sul viale del tramonto ha più pelle di quella che le spetta. Non le hanno mai rubato la bicicletta, ma insomma, qualcosa le manca. È quello scatto alla fine delle scale, quel sorriso da ospitata televisiva: insomma, quelle robe sottili e grossolane, da autentica diva. E pensare che un tempo riempiva teatri e letti, ippodromi e letti, cinema e letti. Qualcuno la chiamava Miss Sbracadivanetti.
Ha sorrisi per tutti, lacrime in tasca e borse firmate con dentro polvere di lana. Ha guanti lunghi e braccia secche, piedi ballerini con ambizioni da colibrì. Nessuno l'ha vista piangere quando non serviva. Ha avuto due figli da mariti diversi, una femmina e un maschio innamorati dello stesso uomo. Ha un cane piccolissimo, cui compra cappottini dai colori sgargianti. La musica che ascolta è un contrappunto delizioso tra il silenzio e il nulla, colonne sonore e cantilene da culla, canti partigiani e stridenti marcette. Ogni luna piena ha la tentazione licantropica di rifarsi le tette. L'ultimo libro che ha letto era di genere storico: Le grandi invenzioni di Archimede Pitagorico. E intanto il tempo se ne va, bambolina di tulle. Si è sempre aggrappata forte ai rossetti e ai profumi, perché i balocchi - si sa - non li ha mai amati. Molto meglio giocare dal grande schermo con gli sguardi adoranti di cinefili cassa-integrati.
La ferma il vigile urbano, che è colpevole due volte. Primo, non la riconosce. Secondo, è immune alle ciglia col riporto, saracinesche flappanti che chiudono e riaprono l'attività di occhi stanchi. Sessantotto euro per divieto di sosta: in fondo è un buon prezzo per essersi fermata. La prossima contravvenzione sarà la più salata.

domenica 11 novembre 2007

Paolo il caldo


Paolo si era fidanzato presto. Erano le nove di mattina di nove anni prima. Lei si chiamava Monica e portava i jeans come una seconda pelle, quelli che li togli con la lametta o con contorsioni da Houdini dei giorni nostri.
Dopo sette anni, sei mesi e un giorno, Paolo razionalizza: non ama più quella donna, ex-ragazzina, appesantita e critica sul suo odore intimo. Bisogna lasciarla e impedire che soffra. Monica, dal canto suo, soffre già da due anni di tradimenti in corso, che - come gli omonimi lavori - non finiscono quando preventivato. Ha conosciuto uomini in senso biblico, rimorchiati in parrocchia e al mercato.
Lei lo guarda, quel fidanzato stanco. Non è più come prima, frizzante e spensierato. Non la stringe fino a soffocarla, non le fa più sorprese, non le lascia biglietti sotto al cuscino, non le telefona solo per dirle niente.
Lui si sveglia con un topolino nel cuore, onesto roditore che fa solo il suo lavoro: trasformare in dolore ogni parvenza d'oro. Si trascina in bagno, organizza un bidet e un gioco di specchi per sembrare meno calvo e più com'era prima, quando sorrideva alle ragazze e alle signore sole sognando un sistema per farle sdilinquire.
Monica si veste con cura, cambia idea e colore una decina di volte. Lungo, corto, bianco, marrone, jeans. Jeans. Gli stessi di nove anni addietro. Sorrisi di circostanza, perché c'entra dentro ancora. Paura di quello che rappresentano quelle chiappe sode: l'esca per qualcuno o la paura che nessuno sia meglio di Paolo. Prendono insieme l'ascensore e lui la guarda come per dire: stai alla grande, amore mio. E invece dice: vado a giocare a calcetto. L'aspettativa è delusa, il passaggio a livello sollevato. Monica esce incontro al mondo come una lingua incontro al gelato.

martedì 6 novembre 2007

Risposte nate morte




- Sei sicura che Gin Lemon non era quel cantante che cantava quella canzone?
- Sì. Sono sicura.
- Forse mi sbaglio io.
- Sì, Franci. Ti sbagli tu.
- Il fatto è che l'inglese proprio non l'ho studiato e non l'ho capito. Che devo fare?
- Carpe diem…
- Questo è francese!
- Questo. È. Francese.
- Ah! Il francese lo conosco. Mio zio è di Torino, lì vicino.
- Sai, Franci… stasera esco con Mattia. E ho paura di ricascarci ancora.
- E ci ricaschi sicuro! Perché tu sai il francese e l'inglese, ma di ragazzi non ci capisci niente.
- Dimmelo tu, allora. Che devo fare?
- Esci. E goditi la serata.
- Ma dopo la serata c'è un altro giorno! Che senso ha?
- Hai il tipico difetto di chi ha studiato. Non ti godi il momento, pensi troppo al futuro.
- Quindi… Carpe diem anche per me?
- Carpe, orate, mangia quello che ti pare. Ma metti da parte quel muso, che mi sembri mia nonna. Bella donna, eh… ma sempre preoccupata di tirare a campare.

E così mi godo il mio Mattia.
Bacio la bocca che ha dato altri baci.
Mi tengo lontana dalla progettazione, affettando un sorriso da Gioconda contro il suo occhio bovino da Joe Condor.
In macchina, ai Pratoni del Vivaro, puoi inventarti l'amore e fare a pezzi una Micra. Se ci ripensi, ti chiedi dove avevi la testa, in quel momento.
Sul cruscotto, ecco dove.
Se ci ripensi, non sei proprio il tipo che si fa la sveltina, che si sveglia da sola la domenica mattina, che si sistema le calze bagnandosi le dita, che cerca di sorridere quando è finita e di dire che è stato bello.

Mattia mi lascia sotto casa e riparte sgommando. Canzone nel suo stereo: La dura legge del goal. Uno dei motivi per cui ci siamo lasciati: gusti barbari contro gusti raffinati. Io sarei ripartita con calma studiata, sulle note di un De Andrè d'annata.
E Franci, allora? È una pietra tombale, quanto a raffinatezza. Ma un'amica è diversa, non te la devi sposare. La chiamo al cellulare:

- Franci…
- Teresa! Com'è andata con mattia?
- Come sapevo.
- Ah. Allora è andata bene!
- Perché?
- In amore, le sorprese sono belle solo il primo mese.

Riattacco e sorrido come sorridono i killer. Mi cerco in tasca le chiavi e nel cuore la risposta, ma non faccio un buon lavoro in nessuno dei due casi. Citofono. Purtroppo, si apre soltanto un portone.

giovedì 1 novembre 2007

Segretissimo





Se torno a nascere faccio il carrozziere:
- E niente, me la devi lascia'. Devo riporta' tutto a vergine…
O il dentista, equilibrista della fattura mancata.
O l'idraulico, che si tromba le signore. Cinquanta euro solo la chiavata.
Mi lascio alle spalle la civiltà occidentale, le belle lettere, gli studi matti e disperatissimi, in cambio di piedi dolci da cameriere. Niente mani da pianista, ma calli da cantiere, ottanta euro al giorno e tante canottiere.
Oppure metto su una pizzeria a taglio, egiziano incluso, e guadagno duecento euro al giorno, che la pasta della pizza costa niente.
E poi voglio prendere decine di treni andini, quelli che si arrampicano come vermi osceni verso un cielo blu cobalto. E capire se la ragazza di Ipanema la smolla anche a un panzone di Crema, distinto, pulitissimo, generosissimo, entrata indipendente.
Poi vado a vivere in campagna, che se ti scordi il latte devi prendere la macchina. Farò lavoretti in giardino, niente prato inglese che è una schiavitù. E barbecue estremo per amici avvinazzati, che tornano in città alle tre di notte, poveri disgraziati. E io rimango a veder le stelle, prigioniero degli stessi ricordi di quand'ero me stesso, ma schiavo di un esercito di grilli e di zanzare.
Il segreto della felicità è farcela, sempre e comunque, sotto ogni tipo di cielo. E averne ancora per mettersi il pigiama, sorridere da soli e buonanotte. Che domani è un altro giorno, tra cose che non sai, luoghi comuni, settimane enigmatiche e vecchi fantini che vanno ancora a mignotte. L'ho letto da qualche parte o l'ho inventato: sotto la cenere non c'è il fuoco, ma una parodia di brace. È inutile bruciare, se non ne sei capace. E allora tira avanti, passi piccoli e cadenzati, da guida alpina o da degente in ciabatte. Il gatto sulle gambe, la coperta a quadri, il camino, la vestaglia, una moglie che non te la dà vinta e non te la dà affatto: desideri o incubi, chi può dirlo? Per ora, amici miei, mi godo questo libro, a rischio di finirlo.